Giugno 09, 2023

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Codice Deontologico e Autonomia.Qualcosa si muove

4/08/2003

Rifessioni da un seminario romano

Si è svolto a Roma il 29 e 30 marzo scorso un seminario su " Identità e deontologia dei docenti nella scuola pubblica e nella società della conoscenza ", organizzato dall'associazione Proteo e da Cgil-scuola. Un’ intera giornata è stata dedicata ad interventi e confronti su deontologia e professione docente ed alla conseguente e sempre più attuale ipotesi della definizione di un codice etico.

Erano presenti le organizzazioni confederali della scuola, lo Snals e le associazioni professionali degli insegnanti sia laiche che cattoliche, maggiormente impegnate sull'argomento.

Il fatto che anche il mondo confederale scolastico, e la Cgil in particolare, sia promotore di questo tipo di dibattito e degli inevitabili pre-requisiti ( il carattere professionale - autonomo della docenza ) e problematiche ( la necessità di nuovi profili professionali nella dimensione autonoma della scuola) ad esso collegati, non può che essere accolta con favore da chi, come l'AND, ha a cuore il riconoscimento "professionale" del lavoro docente con i relativi adeguamenti giuridici che questo comporta.

Anche se tutti siamo ben consci che è stata proprio quella parte sindacale, con la sua politica culturale e contrattuale degli ultimi trenta anni, ad impedire e relegare in un ruolo esecutivo la funzione docente, non possiamo, laicamente, non cogliere come positivo il fatto che quella parte sindacale, comunque maggioritaria in termini di consensi, e quindi determinante, sia coinvolta ormai "pubblicamente" su questo tema. Certamente vi è stata trascinata dall'inevitabile rivoluzione che il processo dell'autonomia porta con sé in termini di "reali " riconoscimenti e concrete "attribuzioni" di responsabilità agli insegnanti; certamente non ha potuto più nascondersi di fronte alla generalizzazione del dibattito su questo tema; certamente da buona ultima arrivata e, soprattutto, permeata di ben altri imput teorici, correrà il rischio di stravolgere il senso vero della questione…., ma, poiché non siamo fra quelli che demonizzano l’avversario (individuandolo come "nemico", invece che, appunto, come "avversario"), plaudiamo all’iniziativa, perché, comunque, ragionare e far circolare opininioni fa sempre bene.

Tra gli interventi dei relatori particolarmente significativo è stato quello di Piero Romei, dell'Università di Bologna, che già aveva dato un contributo importante con la stesura del " Manifesto dell'Autonomia", presentato nell'omonimo convegno di Roma del 5 Ottobre 2000. Romei, infatti, ha ben compreso la necessità di ribadire e contemporaneamente riformare i requisiti professionali del docente, specialista di un insegnamento (non più impiegatizio, tantomeno artigianale), che fa della sua competenza disciplinare l' elemento centrale per individuare i possibili canali dell'apprendimento, partendo proprio dalle nuove esigenze declinate dall'autonomia.

Assertore della necessità di un codice deontologico, ritiene che debba però essere traducibile in regole operative, nel senso che l'etica ha bisogno di una complessa "etichetta" che, nel caso in questione, è costituita dal profilo professionale del docente.

Romei sembra inoltre individuare con estrema lucidità la situazione attuale quando afferma che " l'autonomia conferisce agli istituti il ruolo di soggetti politici, abilitati alla progettazione, ma contemporaneamente richiede l'adesione ad un modo di lavorare collettivo ", che è poi la vera novità nell'organizzazione del lavoro che l’ Autonomia, appunto, ha "aggiunto" alla funzione docente. L'autonomia porta con sé una valorizzazione del concetto di "collega" , che porta, a sua volta, una legittimazione dei ruoli di coordinamento senza i quali la dimensione collettiva ( intesa come decisioni prese in gruppo) muore.

Tutto ciò è ovviamente incompatibile con una ormai anacronistica deriva individualistica all'interno della scuola e della professione docente nel suo complesso. E, coerentemente, secondo Romei, anche questo aspetto andrebbe inserito nella stesura di un codice deontologico.

Questa premessa gli consente, inoltre, di dare una interessante lettura dei motivi del fallimento del famigerato art.29, del Concorsaccio, che definisce "rinforzo della cultura individualistica, antitetica allo spirito dell'autonomia. Il Concorsaccio faceva correre da soli, contro i colleghi; proponeva una valutazione fatta da soggetti esterni; e premiava solo per il saper e non per il saper insegnare.

Per Romei, infatti, qualunque momento valutativo deve chiarire prima il modello a cui si riferisce, per non essere destinato al fallimento.

Queste puntuali osservazioni hanno ovviamente enucleato le contraddizioni del percorso che i Confederali hanno portato avanti nelle fasi di individuazione e di successiva stesura dell’ art. 29 del contratto.

Nel dibattito seguito alla relazione di Romei, è venuta alla luce tutta la difficoltà confederale sull’argomento, difficoltà che si è manifestata attraverso l’impostazione di una linea sostanzialmente solo difensiva, perché ormai non v’è organizzazione professionale o sindacale che non sia d’accordo sulla necessità di una riconfigurazione della figura docente. Su questo piano l'intervento più significativo è quello del rappresentante della Cisl, Giulietti, neo-vicepresidente del CNPI, ( a rotazione dopo cgil, snals) che ha affermato ( finalmente! ) che lo status docente deriva in primis da una condizione ordinamentale ed istituzionale, e, solo in seconda battuta, da una condizione pattizzia di tipo contrattuale!

Giulietti ha riconosciuto che con l'autonomia i docenti stanno passando da una dimensione impiegatizia ad una professionale (!!!!) e che la dimensione collegiale dell'autonomia si deve esplicitare nella libertà di insegnamento.

E’ evidente che la bocciatura del concorsaccio da parte della categoria, deve essere stata una lezione di non poco peso se ha sentito di dover ribadire, per due volte, il fatto che la ridefinizione dei profili professionali richiede l'intervento più alto del Parlamento. E, com’era facilmente ipotizzabile, su questa linea si è mosso anche il rappresentante dello Snals.

Nel corso del dibattito sono poi stati illustrati gli elementi fondanti di un possibile Codice, alcuni dei quali già concretamente ipotizzati da alcune organizzazioni professionali.

Vale la pena riportare un passo, illustrato nel corso del dibattito, che fa riferimento all’etica professionale: "non rivendicare da altri l'autorità della professione, con atteggiamenti di delega, di rinuncia o sottomissione, ma costruirla nell'azione con comportamenti che la valorizzino e la tutelino dall'impoverimento e dal degrado".

Correttamente, è stata citata, come esempio di mancato rispetto dell'etica della professione, la sistematica assenza di selezione qualitativa che ha caratterizzato le ultime vicende di immissione in ruolo.

Nel dibattito, più d’uno ha fatto riferimento al bisogno di istituire un Ordine Professionale degli insegnanti, che sembrerebbe essere il naturale e logico corollario del codice etico, e quindi dell'effettivo collocamento della funzione docente nella categoria delle Professioni, ma nell'intervento conclusivo, Enrico Panini ha bocciato l’ipotesi, senza appello, smorzando gli eventuali, eccessivi ottimismi indotti dall'andamento complessivo della discussione.

Tuttavia la ripresa di un dibattito a trecentosessanta gradi nel mondo della scuola sulla necessità di declinare etiche di comportamento professionale, ( la costruzione di un codice deontologico non è cosa recente, l'Uciim, l'organizzazione degli insegnanti cattolici, vi aveva lavorato già dal lontano 1977 e successivamente anche altri, come A.Balducci su " il Voltaire ", avevano sviluppato l’argomento,), deve farci ben sperare. Forse, l'approccio nei confronti della nostra professione, finalmente, a tutti i livelli sta mutando ed è lecito ipotizzare che in anche in Italia, la strada dell'Associazionismo professionale come rappresentanza degli insegnanti sia meno in salita.

Chi governa la scuola? La Repubblica o i vescovi?

5/5/2002

Comunicato Stampa

L’inchiostro con cui si sta scrivendo, in questi giorni, il disegno di legge sugli insegnanti di religione cattolica mina in profondità la natura laica della scuola della Repubblica e rischia di aprire un’ulteriore frattura all’interno del sistema scolastico italiano.

Per i docenti di religione cattolica, che finora ricevono di volta in volta un incarico annuale di insegnamento, con il disegno di legge AC n. 2480, vengono «istituiti due distinti ruoli regionali, articolati per ambiti territoriali corrispondenti alle diocesi» (art. 1, comma 1); l’accesso al ruolo e il mantenimento in esso rimane sempre e sistematicamente sottoposto al placet dell’«ordinario diocesano», (art. 1, comma 3; art. 3, commi 4 e 9); nel caso in cui il gradimento del vescovo venga meno, il docente revocato «può fruire della mobilità professionale nel comparto del personale della scuola» e quindi, se «in possesso dei requisiti prescritti per l’insegnamento richiesto» può passare ad altra disciplina (art. 4, comma 3).

È sin troppo evidente che tale proposta pone una serie assai grave di interrogativi:

· è coerente con la Costituzione una norma che introduce un canale di reclutamento del personale insegnante palesemente difforme da quello vigente per ogni altra disciplina, ordine di studi, tipologia scolastica, da ogni altro tipo di impiego pubblico?

· è sensato e accettabile che un pubblico dipendente sia subordinato ad un’autorità diversa e difforme rispetto a quella della pubblica amministrazione?

· la fame di posti di lavoro -anche nella scuola- non farà di questa norma uno strumento surrettizio per entrare nei ruoli pubblici attraverso l’IRC, farsi dichiarare «inidonei» dal vescovo e passare poi ad altra disciplina come docente a tempo indeterminato?

In quanto Associazione professionale dei docenti, siamo laici e per la laicità dell’insegnamento, ma parliamo anche a nome dei nostri associati cattolici e ci chiediamo se invece di imporre tutto il proprio peso politico sulla struttura sempre più fragile della Repubblica, non sarebbe interesse morale e religioso della Chiesa cattolica fare sulla questione dell’IRC un passo indietro, accettando la rinuncia al controllo diretto dell’ora di religione in cambio dell’istituzione di una disciplina obbligatoria dedicata allo studio della storia delle religioni. Quanto più, infatti, è protetto in Italia l’insegnamento della «religione cattolica», tanto più gli italiani rimangono ignoranti in tema religioso, un argomento certamente essenziale per qualunque essere umano. Tale insegnamento dovrebbe essere impartito, naturalmente, da un docente reclutato con gli stessi strumenti giuridici che valgono per ogni altra disciplina e dovrebbe dipendere solo dalle istituzioni della Repubblica.

Sarebbe, questo, un modo per fermare quel processo di progressivo controllo della Chiesa cattolica sulla vita della nostra Nazione che ha impedito di attuare uno dei principi fondamentali della vita pubblica: «libera Chiesa in libero Stato». Per tutte queste ragioni, chiediamo al Parlamento di respingere una proposta che -al di là delle apparenze- non giova né alla scuola né alla Chiesa.

( 5 dicembre 2002 )

Prof. Francesco GRECO
Presidente dell’Associazione Nazionale Docenti

 

La vera condizione dei docenti in Italia

2/12/2009

La Rai con Presadiretta richiama l’attenzione degli italiani sulla condizione dei docenti

Il programma Presadiretta di Raitre, condotto da Riccardo Iacona, trasmesso nella serata di domenica scorsa, porta all'attenzione del grande pubblico la situazione reale che interessa gran parte della scuola italiana e accende, per la prima volta, i riflettori dei grandi media nazionali su aspetti ai più sconosciuti, che riguardano non solo le strutture e l'organizzazione della scuola, ma anche la drammatica condizione di molti docenti.

Nel servizio curato da Domenico Iannaccone viene messo in rilievo, tra l’altro, il girone dantesco dei dannati della supplenza che pur di poter lavorare, dopo aver completato un percorso di studio universitario, continuano ad accumulare titoli post laurea, con il solo scopo di accrescere punteggi che possano far salire di qualche posizione o quanto meno mantenere inalterata la propria situazione nelle famigerate 'graduatorie ad esaurimento' o, per lo stesso scopo, ad accettare supplenze sottoponendosi a sacrifici enormi come uscire di casa prima dell'alba e farvi rientro al calar della notte o, ancora, a ricercare supplenze gratuite presso i diplomifici privati.

A Iacona va senza dubbio riconosciuto in primis il merito di aver sfatato un luogo comune, divenuto demagogicamente cavallo di battaglia di un ministro che consapevolmente sa di mentire quando chiama fannulloni i docenti italiani perché lavorerebbero solo 18 ore alla settimana e che per questo il loro stipendio, poco più di mille euro al mese, è anche elevato.

In verità, gli aspetti considerati nella trasmissione, per quanto drammatici non sono i soli a rendere evidente quanto triste è la condizione in cui versa in Italia questa categoria professionale, ininterrottamente oggetto di vituperati attacchi dalla stampa quotidiana e da chi dovrebbe interpretarne i bisogni e rappresentarne le istanze ai più alti livelli istituzionali. A far parte del girone dei dannati, infatti, non sono solo i docenti precari, ma anche tutti gli altri, quelli cosiddetti di 'ruolo' che ogni anno, in conseguenza della modifica degli organici perdono posto e vengono trasferiti d'ufficio in sedi spesso lontane diverse decine di chilometri da quella precedente. Questo potrebbe apparire normale, forse anche fisiologico, in realtà l'anno dopo la questione potrebbe ripetersi e ancora ripetersi negli anni successivi, senza alcuna garanzia di stabilità, mentre i costi umani e finanziari sono tutti a carico dei docenti interessati. Una condizione di perenne precarietà gestita dall'amministrazione con la cosiddetta 'mobilità annuale' che ogni anno interessa qualche centinaia di migliaia di docenti, costretti ad affollare nei mesi di luglio e di agosto le stanze degli ex provveditorati, in attesa di conoscere la loro sede per il prossimo anno scolastico. Cosa dire poi dei docenti la cui cattedra comprende due o tre scuole poste in comuni diversi tra loro distanti anche oltre trenta chilometri. In molti casi, trattandosi di comuni non collegati con mezzi pubblici e negli orari corrispondenti alle ore di lezione, questi docenti sono costretti ad utilizzare il proprio mezzo di trasporto, con evidenti costi aggiuntivi che gravano sul già misero stipendio.

Si tratta di aspetti tutt’altro che marginali, se si considera che interessano la gran parte dei docenti italiani, che hanno ripercussioni non solo finanziarie, ma anche fisiche e psicologiche, purtroppo non adeguatamente considerati nei contratti di lavoro e nelle tante indagine condotte sulla sindrome da burnout, che tuttavia hanno una chiara evidenza stressogena su persone il cui lavoro per quanto essenziale è continuamente dileggiato, fin quasi all'ignominia.

Tanti altri sono gli aspetti che meriterebbero un'attenta considerazione e tante sono le responsabilità di questo stato di cose a cui non è estranea la complicità consociativa di un pansindacalismo che sugli interessi della categoria ha sempre giocato al ribasso, non curante degli effetti deleteri di certe riforme che, anzi, a volte in modo subdolo e cinico, ha sostenuto se non perfino promosso, per poi farisaicamente rinnegarle nelle assemblee sindacali.

In questo generale stato di crisi che interessa la società italiana, la scuola, come altrove hanno ben capito, deve essere posta tra le priorità strategiche del Paese, ad essa non può che guardarsi come ad un sistema che come tale è insuscettibile di interventi frazionati, un sistema che non avrebbe modo di esistere senza quella che è la sua attività primaria, l’insegnamento e chi a questa delicata funzione è preposto, i docenti. Proprio per questo, oggi, 'nascondersi lo stato d'insensatezza a cui siamo giunti sarebbe il colmo dell'insensatezza”; è tempo che le questioni serie vengano trattate in modo serio; è tempo che l’istruzione, anche in Italia, sia considerata come un investimento sociale e non come un costo da tagliare; è tempo per costruire una società nuova e un uomo nuovo, competente, ma orientato da valori forti che solo una scuola in cui si possa credere può dare.

Di questo, tutti dobbiamo acquisire consapevolezza se non vogliamo assistere inerti all’azione corrosiva di una generale perdita di orientamento e di fiducia che interessa ogni ambito dell’attività umana che, attraverso la scuola, potrebbe intaccare quella genuina speranza dei nostri studenti che con l’istruzione la vita di ciascuno possa migliorare e per questo è necessario studiare per progredire come persona e come società.

 

 

Assegnazioni di personale docente alle associazioni professionali.

16/2/2000

Dura presa di posizione dell'AND

 

Comunicato Stampa

Assegnazioni di personale docente alle associazioni professionali della scuola. Il ministro della pubblica Istruzione firmerà, entro questa settimana, i relativi decreti. Ferma e decisa la presa di posizione dell’AND Associazione Nazionale Docenti contenuta in una nota inviata al ministro prof. Tullio de Mauro.

Nella nota, tra l’altro è scritto: "da informazioni in nostro possesso, Ella avrebbe quasi ultimato la lista delle assegnazioni di personale docente da disporre a norma dell’art. 26, comma 8, legge 23.12.1998, n. 448, tale lista ricalcherebbe nei contenuti l’impostazione data dal suo predecessore già da noi contestata e già oggetto di un’interrogazione parlamentare".

"Considerato che siamo sinceramente convinti che la ratio della norma sia quella di assicurare alle associazioni professionali dei docenti degli spazi di agibilità al fine di poter fornire contributi tecnico-professionali qualificati di supporto alla professionalità docente, qualora l’impostazione di cui sopra dovesse risultare confermata è fermo proposito di questa organizzazione professionale e sindacale sostenere, nell’interesse della categoria rappresentata, una battaglia di chiarezza e di trasparenza sui criteri con cui sono disposte dette assegnazioni".

Sulla questione già l’anno scorso l’AND era intervenuta contestando l’esiguo numero di assegnazioni alle associazioni professionali dei docenti mentre molti altri enti sfruttando l’istituto dell’assegnazioni avevano beneficiato di un rilevante numero di distacchi. La contestazione dell’AND ebbe ampia diffusione sulla stampa nazionale e approdò in Parlamento ove fu presentata un’interrogazione al Senato.

Per un ministro che ha esordito dichiarando di tenere a cuore la condizione della professione docente l’avallo a distacchi di docenti presso enti che di tutto si occupano tranne che di questa professione rappresenterebbe la più clamorosa autosmentita e forse anche il segno di una grave debolezza politica che non consente di tagliare con vecchie dinamiche nella gestione del ministero ed ancor di più la conferma, se mai ce ne fosse bisogno, di come certe logiche sopravvivono agli uomini.

Più risorse alla scuola statale per migliorarla

Indagine OCSE-Talis 2009

Il Rapporto Ocse-Talis (Teaching and Learning International Survey), presentato lo scorso 17 giugno al Ministero dell’Istruzione, evidenzia la situazione allarmante della scuola italiana e conferma quanto già evidenziato in altri studi. Per la scuola italiana la questione principe non è solo quanto si spende, considerato che l’Italia spende per l’istruzione assai meno di altri paesi europei rispetto ai quali, secondo le statistiche dell’Eurostat si situa al 21^ posto tra i paesi Ue, con una spesa di appena il 4,4% del PIL, subito dopo la Bulgaria (4,5%) e poco prima della Grecia (4%), della Slovacchia (3,8%) e della Romania (3,5%), ma anche come si spende.

Ciò detto, va fugata ogni semplificazione e le comparazioni per essere significative devono tener conto delle specificità del nostro sistema educativo.

In Italia, secondo l’Ocse (Education at a Glance) ciò che incide nella spesa non sono certo le retribuzioni percepite dai docenti –tra le più basse dei paesi Ocse!-, ma, essenzialmente, per il rapporto docenti/studenti, il maggior impegno orario degli studenti e il minor rapporto studenti/classe. Tuttavia, se si considera che in Italia, a differenza di altri Paesi, sono presenti docenti per il sostegno (oltre 90.000) e che esiste in ogni scuola e in ogni classe un docente di religione cattolica (quasi 27.000), il cui organico, a carico dello Stato, è gestito per buona parte direttamente dalle gerarchie della Chiesa, si può ben vedere come, escludendo dal computo queste due figure, il rapporto docenti/studenti si avvicini molto alla media Ocse.

Per quanto riguarda il rapporto studenti/classe, bisogna considerare l’inadeguatezza dell’edilizia scolastica, le particolarità morfologiche del nostro territorio e delle sue strutture di collegamento, oltre che la presenza, giova ricordarlo, di 8.100 comuni, in cui si polverizza il nostro sistema di amministrazioni locali.

Per quanto concerne i risultati negli apprendimenti, anche qui occorre considerare che il dato non è uniforme sul territorio nazionale e che le indagini includono anche gli studenti delle scuole private, le cui performance sono ben al di sotto di quelli delle scuole statali, anzi sono proprio le scuole private che abbassano la media dei risultati nelle indagini condotte dall'Ocse.

L’investimento in istruzione è essenziale per lo sviluppo del nostro Paese. All'istruzione non si può guardare solo in termini ragionieristici, le risorse risparmiate devono rimanere nella scuola statale per migliorarla, se non si vuole coscientemente favorirne il suo declino.

Un nuovo stato giuridico per i docenti italiani*

di Francesco Greco

Presidente dell’Associazione Nazionale Docenti

Scuola e università

Occorre chiarezza sulle loro reali condizioni

I dubbi e le perplessità, determinati dalla diffusione dei risultati della prova nazionale che ha riguardato l’esame di Stato della scuola secondaria di primo grado, non possono che essere ritenuti fondatamente legittimi.
Come non interrogarsi se, di fronte ad un’”operazione di pulitura”, ad un semplice “make up” statistico, i dati della prova risultino profondamente modificati, fino a determinare una situazione assai diversa dai risultati della stessa prova? Una situazione che è l’esatto opposto di quanto emerso appena un anno addietro, quando per la prima volta fu introdotta la prova nazionale. Anche allora furono stilate graduatorie, anche allora erano le aree del Sud che registravano i migliori risultati, ma allora nessuno associò quei risultati con le aree a maggiore concentrazione criminale!
È necessario, a questo punto, che si faccia chiarezza!
È grave e inaccettabile l’ostracismo verso le regioni del Sud, che in questi giorni si sta riversando su quel settore che più di altri ha favorito la mobilità sociale e il progresso dell’intero Paese, qual è quello della scuola e delle università del Mezzogiorno. Un ostracismo che è esploso con tutta la sua tracotanza prima sui dirigenti scolastici del Sud, coinvolgendo addirittura una istituzione della Repubblica, che ha adottato una delibera tanto pretestuosa quanto illegittima, poi sui docenti del Sud, con l’assurda pretesa della conoscenza parlata e scritta dei “dialetti padani”, oggi sugli studenti del Sud, accusati di aver copiato i test della prova nazionale.
Un ostracismo che non ha risparmiato neanche le Università del Mezzogiorno, relegandole in coda in una valutazione tanto discutibile quanto preconfezionata nei metodi e nei risultati.
Tutto questo è inaccettabile! Non si può, con tanta leggerezza, gettare la scuola e le Università del Sud nell’agone della demagogia politica.
L’istruzione e la formazione sono settori troppo importanti perché si possa accettare una qualsiasi strumentalizzazione e una mancanza tanto evidente di chiarezza sulla loro reale condizione e, ancor di più, un’assenza di idee precise su come migliorarli senza prima distruggerli.
Ciò detto, occorre anche fare chiarezza sui risultati contraddittori che emergono dalle varie indagini internazionali e nazionali che riguardano gli esiti degli apprendimenti dei nostri studenti.
Da un lato, infatti, le indagini internazionali e tra queste quelle condotte dall’OCSE (indagine PISA- Programme for International Student Assessment) ci rappresentano una situazione allarmante, dato che i nostri quindicenni evidenziano competenze inferiori non solo ai loro coetanei dei paesi più avanzati, ma anche rispetto a quelli di paesi emergenti, come l’India e la Cina.
Un risultato assai differente ci viene poi rappresentato da un’altra indagine internazionale condotta dall’IEA, l’Associazione internazionale per la valutazione del rendimento scolastico (indagine TIMSS - Trends in International Mathematics and Science Study), che mette in risalto le ottime prestazioni dei nostri ragazzi della fascia di età 7-10 anni, per i loro risultati ben al di sopra della media mondiale. Risultati che confermano la validità del modello pedagogico di questo settore che, pur tuttavia, non ha impedito la sua sostanziale modificazione.
I test nazionali ed internazionali, ovviamente, colgono contenuti e capacità 'standard' che i giovani dovrebbero conoscere e possedere ad una determinata età, né qui si vuole mettere in discussione la serietà e la competenza dei componenti delle commissioni che formulano i test. Ma se si parte dall’idea che i test siano validi, il problema vero è come vengono interpretati i dati statistici disponibili, una volta che questi sono stati ripuliti da ovvi errori, che possono verificarsi al SUD come al NORD, nella loro raccolta e produzione?
Appare chiaro che, dopo anni di informazioni contrastanti e contraddittorie, sia giunto il momento di cercare di interpretare con opportune chiavi di lettura le informazioni che ci vengono fornite. Ciò renderebbe evidente la pochezza di certe posizioni e permetterebbe di guardare al nostro sistema educativo nella sua interezza, al di là di limitate visioni provinciali che certo non lo aiutano a migliorare. Si comprenderebbe così perché, anche per ovvie questioni di differenziali di ordine economico e culturale del contesto sociale, in alcune aree del Paese, a parità di impegno degli insegnanti, i livelli di competenze degli studenti possano risultare meno elevati. Ma, ancor di più, permetterebbe di vedere come oggi il vero problema non è tanto che gli studenti di alcune regioni italiane sopravanzino quelli di altre. Se i giovani friulani (che il PISA colloca tra i migliori studenti in Italia) meritano gli allori perché conseguono risultanti migliori di quelli della provincia di Palermo o di Napoli, o, piuttosto, di preoccuparsi seriamente della distanza abissale che li separa dai loro colleghi di Bombay?
Pertanto, pur comprendendo che in Italia la situazione degli apprendimenti è geograficamente diversificata, non si può più nascondere che è l’intera scuola italiana che necessita un’attenta considerazione, per capire almeno in quale grado si verifichi il calo sistematico di competenze e perché. È solo partendo da una vera analisi dello stato del nostro sistema educativo e formativo che si possono individuare le strategie per miglioralo, dove e come intervenire.

Francesco Greco

Audizione AND, VII Commissione Camera dei Deputati

Decreto legge n. 137 del 1 settembre 2008

Onorevole Presidente,

nel ringraziare per il cortese invito, premetto che le nostre osservazioni attengono al metodo e al merito del decreto legge.

METODO

Riteniamo del tutto inopportuno il ricorso al decreto legge per introdurre una riforma sostanziale di riorganizzazione del servizio scolastico, con effetti assai rilevanti sull'assetto organizzativo e didattico, anche se di una parte limitata, ma fondamentale qual è quella dell'istruzione primaria. Ancora, riteniamo ingiustificato il ricorso al decreto legge non sussistendo, per come richiesto dall’art. 77 della Costituzione, alcuna straordinarietà e urgenza. Una tale procedura condiziona la discussione e impedisce una seria riflessione sull'utilità delle scelte politiche che, con il provvedimento in questione, si intendono operare e mette tutti, Parlamento e Paese di fronte al “fatto compiuto”.

Un metodo non condivisibile e che alla scuola italiana, ormai sottoposta da oltre un decennio a riforme e controriforme, certo non giova, cosi come non aiuta a trovare quella concordia necessaria, perché si faccia del capitale umano, che la scuola contribuisce a formare, una questione centrale nel nostro Paese che possa invertire il suo declino economico e sociale.

In questi anni i Ministri che si sono succeduti, per proporre le loro riforme, si sono avvalsi di commissioni, più o meno rappresentative dei diversi orientamenti culturali presenti nel Paese, le quali hanno prodotto documenti che hanno rappresentato la base delle proposte legislative. Oggi ci piacerebbe capire dove avviene quel momento di analisi e di elaborazione programmatica che dovrebbe essere il riferimento di quanto si propone. Analisi ed elaborazioni dovrebbero essere di pubblico dominio, mentre qui abbiamo solo, per quanto tecnicamente ben fatte, le relazioni prodotte dagli Uffici della Commissione.

Per questi motivi il metodo diventa sostanza e le riforme, che interessano un settore fondamentale della nostra società, assumono ancora una volta caratteri “di parte” che assolutamente non dovrebbero avere. Auspichiamo vivamente che almeno sulla scuola si possa cambiare.

MERITO

INSEGNANTE UNICO NELLA SCUOLA PRIMARIA

Nel merito tra i pochi articoli che compongono il decreto legge, senz’altro, l'art. 4 ha la maggiore rilevanza. Esso prevede, nei regolamenti da adottare ai sensi dell'art. 64 del decreto legge 112/2008, che le istituzioni scolastiche costituiscano classi assegnate ad un unico insegnante e funzionanti con un orario di 24 ore settimanali, abrogando cosi, senza neanche citarla, la riforma introdotta con la legge del 5 giugno 1990, n. 148 e riportando la scuola primaria all'ordinamento della scuola elementare vigente al giugno del 1990.

Al riguardo, si osserva come le motivazioni adottate non facciano alcun riferimento ad opportunità di tipo pedagogico o di miglioramento dell'organizzazione didattica o dell’efficacia del servizio. Aspetti che  dovrebbero essere assai considerati, ma evidentemente ritenuti, dall’estensore del decreto legge, irrilevanti, atteso che il decreto legge fa esplicito riferimento solo al contenimento della spesa.

La formulazione dell'articolato mette in evidenza la fragilità culturale di un progetto che appare pensato e definito in luoghi assai lontani dalla scuola e, forse anche, dallo stesso ministero proponente. Eppure, se vantaggi ci sono dal disporre di una pluralità di competenze, collegate alla presenza di più insegnanti, ognuno dei quali in possesso di una adeguata padronanza in settori specifici, altrettanti vantaggi possono evidenziarsi, sul piano  socio-affettivo  e didattico, con un insegnante unico preposto alla singola classe. Tanto è più vero, se si evidenzia come l'introduzione dei moduli organizzativi del personale insegnante abbia, di fatto, dato luogo ad impostazioni di tipo disciplinare nell'organizzazione dei contenuti e delle attività didattiche, frammentando così il carattere dell'unitarietà e della pre-disciplinarietà dei saperi, che devono essere insegnati in questo segmento dell'istruzione.

Si insegna a partire dalle elementari, come ci ricorda Morin, a isolare gli oggetti dal loro ambiente, a disgiungere i problemi piuttosto che a collegare e a integrare, a scomporre e non a comporre. La separazione forzata dei saperi e dei processi di acquisizione, la loro prematura formalizzazione e frammentazione, in questa fase evolutiva del processo di crescita, cognitivo e psicologico del bambino, può inficiare l’attitudine a cogliere l’insieme,  a contestualizzare, ad analizzare i problemi nell'ambiente in cui si manifestano.

È evidente che l'organizzazione per moduli corrisponde a impostazioni più complesse, che necessiterebbero di una diversa organizzazione della didattica; proprio per questo, si dovrebbe pensare a modelli organizzativi che evitino che i saperi nella scuola primaria vengano frazionati, ma anche percepiti e acquisiti come tali, ma certamente non è con il cosiddetto maestro unico che si consegue l’unitarietà dei saperi.

Altre ipotesi di riforma sono possibili, altri sono gli obiettivi che si dovrebbero perseguire! La scuola italiana ha bisogno di risorse aggiuntive, mentre il decreto legge guarda in tutt’altra direzione.

LIBRI DI TESTO

E' apprezzabile lo sforzo per contenere il disagio economico causato dai prezzi elevati dei libri di testo e del loro ingiustificato continuo aumento, ma lo riteniamo comunque insufficiente e inadeguato a risolvere un problema vetusto che assilla e, in alcuni casi, angoscia tanti genitori ad ogni avvio di anno scolastico.

Altri strumenti, già proficuamente utilizzati in alcune scuole, possono essere proposti ed istituzionalizzati. Tra questi, l'acquisto di libri da parte delle scuole con il concorso delle famiglie e la loro messa a disposizione attraverso il comodato d'uso. Una tale soluzione, fra tante altre possibili, consentirebbe di far fronte al problema a costi minimali  per le scuole e le per famiglie.

Nel disegno di legge dovrebbe essere introdotta una soluzione anche per il peso eccessivo degli zaini scolastici, con l’adozione, nella scuola primaria, di un libro unico fascicolato per periodi didattici. I distinti fascicoli sarebbero comprensivi dei diversi contenuti di insegnamento relativi ad un arco di tempo limitato. Ciò permetterebbe di utilizzare un solo fascicolo per un determinato periodo didattico, evitando il peso di tanti libri con contenuti relativi all’intero anno scolastico. Una soluzione semplice ed efficace che eviterebbe un peso gravoso che i nostri bambini devono quotidianamente sopportare, cosi come gli effetti negativi sulla loro salute!

VALORE ABILITANTE DELLA LAUREA IN SCIENZE DELLA FORMAZIONE PRIMARIA

Nell’evidenziare che questa Associazione è stata parte attiva affinché fosse riconosciuto valore abilitante all’esame di laurea conclusivo del corso di studio, riteniamo che la disposizione contenuta nel decreto legge sia una giusta rettifica di quanto inopinatamente abrogato.

CITTADINANZA E COSTITUZIONE

Apprezziamo positivamente l'attenzione allo studio della Costituzione e ai temi della cittadinanza. Tuttavia, tali temi, come è noto, sono già presenti nell'ordinamento vigente (legge 53/2003, Nuove Indicazioni per il curricolo, campi di esperienza della scuola dell'Infanzia), per cui ci auguriamo che ciò non significhi la loro sottrazione ad altri insegnamenti.

No alla esternalizzazione dei servizi nelle scuole, no ai progettifici

Comunicato stampa

Il miglioramento della scuola passa anche attraverso il recupero dell’efficienza di quei servizi essenziali ad assicurarne il funzionamento. La esternalizzazione delle pulizie non ha fatto altro che duplicare un servizio già affidato a personale interno, con evidente sottrazione di risorse ad altre attività essenziali per le scuole. Per questo, bene ha fatto il ministro a sollevare il problema. Altrettanto farebbe se intervenisse per sgravare le scuole di tutte quelle attività che non rientrano nella sua missione. Le scuole non sono progettifici, l’autonomia non può significare fare altro tranne che scuola. Occorre che ogni attività che si svolge nelle scuole sia riconducibile alla sua missione, per i suoi effetti sulla didattica e sugli apprendimenti. Altrimenti è altro e, dunque, deve rimanere fuori dalla scuola!

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