Giugno 09, 2023

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Audizione AND VII Commissione Cultura Camera dei deputati

Schema di Decreto Legislativo, legge 28 marzo 2003, n. 53

 Premessa

Al di là della contingenza immediata e di dettaglio operativo che caratterizza quest’audizione, riteniamo necessario svolgere delle brevi considerazioni su alcuni aspetti preliminari -che poi rappresentano le valutazioni di fondo all’interno delle quali si collocano le nostre osservazioni-, non senza tralasciare di chiederci quale peso possano avere le determinazioni della Commissione, chiamata, oggi, a esprimere un parere che, sebbene obbligatorio, è pur tuttavia non vincolante per il Governo. Così non era, quando questo Parlamento nell’esercizio della sua funzione primaria -quella legislativa- tenne scarsamente conto dell’esigenza -fortemente avvertita anche all’interno della stessa maggioranza parlamentare- di apportare modifiche sostanziali alla legge di riforma che si andava approvando -l’attuale legge 53/2003-, limitando, di fatto, la sua funzione ad una mera approvazione e alla votazione di alcuni “ordini del giorno”, tra l’altro, ad oggi, senza alcun seguito normativo.

Tanto detto, abbiamo tutti ben chiaro il contesto politico, sociale, culturale e istituzionale in cui si colloca l’attuale riforma: da un lato, le sfide poste dalla società globalizzata, che spingono verso forme di costruzione e condivisione di saperi nuovi e originali; dall’altro, il contesto Europeo, la riforma del Titolo V della Costituzione e, in particolare, il riconoscimento costituzionale dell’autonomia delle scuole. Un riconoscimento che, a nostro giudizio, avrebbe dovuto aprire la strada a ben altre prospettive per ridisegnare in profondità uno scenario nuovo di governo della scuola, che andasse al di là dell’autonomia organizzativa e didattica, definita dalla legge 59/97, con il conferimento alle scuole di un’autentica autonomia statutaria.

Nondimeno, consideriamo degne del massimo interesse alcune suggestioni offerte dalla riforma degli ordinamenti scolastici, tra queste la considerazione della centralità della persona e del suo diritto-dovere alla formazione, al cui servizio, in posizione sussidiaria anche rispetto alla famiglia, si pone la scuola. Si tratta dell’affermazione di un principio che segna il superamento dell’idea e della pratica di scuola “obbligatoria” tipica dei moderni stati nazionali, funzionale alla formazione di cittadini/elettori, alfabetizzati nella lingua e nelle regole nazionali. Le criticità nascono e si evidenziano quando le affermazioni di principio si declinano in modalità attuative, quali appunto il decreto si propone di dare. Beninteso, ogni soluzione può rappresentare una sfida, esporre a rischi e a esiti inaspettati. Così, le vie scelte, a nostro giudizio, possono anche essere messe concretamente alla prova, tenendo sempre presente che non sono le sole possibili, e ancor di più, non possono essere considerate, a priori, le migliori possibili.

Proprio per questo, e l’esperienza dovrebbe aiutare, le buone riforme devono essere condivise e accettate, in particolar modo, da chi è poi chiamato ad attuarle: con un dialogo vivo e fecondo, innestato attivamente nei processi di definizione delle scelte, per individuare i punti che sono di interesse strategico per l’istruzione e la formazione nel nostro Paese, quale presupposto e condizione anche per una loro condivisione. Le buone riforme richiedono, altresì, tempi distesi d’attuazione, che non nessariamente devono coincidere con i tempi della politica, che possano consentire adeguate sperimentazioni e processi successivi di controllo e di verifica collettiva dei risultati.

Più specificamente, dall’esame dello schema di decreto si rileva:

a) una rispondenza non sempre coerente con la legge delega, di cui l’aspetto più significativo e rilevante è rappresentato dagli allegati A, B, C e D, che, proprio perché attengono alla definizione dei curricoli, dovrebbero trovare la loro fonte in un regolamento da emanarsi ai sensi dell’art. 8 del D.P.R. n. 275/1999. Pertanto, nelle more dell’adozione del regolamento, piuttosto che il carattere transitorio dovrebbe essere dichiarata la valenza assolutamente indicativa –nel senso di una non prescrittività- e sperimentale degli assetti pedagogici, culturali e organizzativi, di cui agli allegati A, B e C;

b) la necessità di un’attenta valutazione della compatibilità, dello schema di decreto, con il nuovo dispositivo dell’art. 117 della Costituzione, che, giova ricordarlo, assegna allo Stato una competenza esclusiva nel definire le norme generali sull’istruzione –ossia i principi fondamentali- e non la definizione di “norme di dettaglio”, quali sono appunto le norme che riguardano i modelli organizzativi e i criteri di erogazione del servizio. La stessa legge 53/2003, correttamente e opportunamente, mentre illustra con precisione principi e criteri direttivi in ordine alle finalità, alle funzioni e ai contenuti formativi, alle possibilità di esercizio del diritto-dovere della persona all’istruzione, nulla dispone riguardo all’organizzazione didattica, né entra nel dettaglio di materie afferenti alla sfera delle determinazioni autonome delle scuole e alla competenza professionale dei docenti (piani di studio personalizzati, tutor, portfolio, laboratori). Perché non spetta allo Stato adottare una pedagogia o una epistemologia o una psicologia, ma indicare i riferimenti essenziali che, all’interno di un desiderabile pluralismo culturale, le scuole devono necessariamente seguire.

Proposte migliorative

All’interno dell’impianto previsto dallo schema di decreto e dei suoi allegati, e tenuto conto degli esiti della Conferenza Unificata, riteniamo opportuno formulare le seguenti proposte migliorative:

a) Riconoscere l’autonomia delle scuole e degli insegnanti

Riteniamo essenziale la salvaguardia dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, elevata nel nostro ordinamento a rango di norma costituzionale, e la sua espansione nell’autonomia didattico-organizzativa riconosciuta alla comunità professionale, che opera all’interno delle istituzioni scolastiche.

In particolare ricordiamo che, ai sensi del DPR 275/97, la scuola ha piena autonomia organizzativa, oltre che didattica. Non sembra legittimo imporre soluzioni organizzative di alcun tipo; al massimo, a livello di “Raccomandazioni”, si possono offrire criteri e fornire suggerimenti. Questo significa che l’indicazione dell’insegnante tutor e coordinatore non può essere intesa come prescrittiva. Al ministero spetta dare le risorse e definire tutti gli aspetti di cui all’art. 8 del DPR 275/97 e che sono prescrittivi. Tra questi aspetti non figura affatto l’indicazione di modelli organizzativi.

Questo non significa che la funzione tutoriale non possa essere “raccomandata”, ma ci sono diversi modi di interpretarla ed esercitarla. Ricordiamo che la stessa legge 148/90, istitutiva dei moduli, non imponeva il gruppo docente, anzi suggeriva nel primo ciclo l’insegnante prevalente, senza tuttavia imporlo. Si potrebbe scrivere, ad esempio, che vanno garantite opportune forme di coordinamento didattico, adottando le soluzioni organizzative ritenute più efficaci e si potrebbe richiamare l’importanza della funzione tutoriale per una migliore interazione cognitiva, affettiva e sociale con gli allievi, ma poi bisogna fermarsi e rispettare l’autonomia della scuola.

Pertanto, in coerenza con il principio della sussidiarietà verticale e nel rispetto dell’autonomia delle scuole e della professionalità dei docenti. si dovrebbe evitare di prescrivere modelli calati dall’alto, secondo una vecchia impostazione centralista dell’istruzione e, al contrario, prevedere, per gli insegnanti, l’attribuzione di nuovi ruoli in apposite norme di riforma dello stato giuridico, che noi fortemente auspichiamo.

b) Distinguere ruoli e responsabilità

Riteniamo necessaria una chiara distinzione dei ruoli e delle responsabilità dei diversi soggetti sociali coinvolti nel processo formativo. Il coinvolgimento della famiglia, nell’ambito del percorso formativo, deve avvenire secondo forme e modalità che spetta alle singole istituzioni scolastiche definire.

In tal senso, ci sembra quanto mai inopportuna la possibilità riconosciuta ai genitori, nell’ambito delle “Indicazioni”, di apportare annotazioni nel cosiddetto portfolio delle competenze individuali, che rischia di generare gravi interferenze, su aspetti di stretta competenza tecnica dei docenti.

Di fatto, la singola scuola –stando alla lettura del concetto di personalizzazione che viene formulata nelle “Indicazioni”– sarebbe tenuta a negoziare con gli umori dei genitori orari, obiettivi e contenuti dell’insegnamento, il che costringerebbe le scuole ad “ascoltare” le richieste delle famiglie, anche al di là degli aspetti strettamente connessi all’attività didattico-educativa.

c) Il portfolio, suggerimenti e non imposizioni

Il portfolio può essere considerato, a ragione, uno strumento con finalità di promozione della persona e di valorizzazione delle sue competenze. Deve comunque rimanere uno strumento di valutazione “autentica”, formativa e non certificativa. Un’eventuale “scivolamento” verso una dimensione certificativa, potrebbe avallare il riconoscimento anche di esiti diversi dei percorsi scolastici, mettendo così, pericolosamente, in discussione il valore legale del titolo di studio.

Il portfolio non è però l’unico strumento possibile: l’osservazione partecipe, la rubrica, il diario…. sono altre forme possibili di valutazione “autentica”. Bisogna evitare che lo strumento prevalga sul significato che lo fonda, ma che fonda anche modalità diverse.

È necessario, inoltre, considerare che, proprio per l’eccessivo e quasi esclusivo riferimento che fanno le “Indicazioni” a tale strumento, ne deriva un impegno compilativo probabilmente non sostenibile e, forse, nemmeno così indispensabile, che rischia di favorire una sua interpretazione banalizzante.

Anche alla luce di queste considerazioni, il portfolio è opportuno suggerirlo; imporlo appare improprio oltre che inopportuno, ed è molto probabile il rischio di una sua traduzione burocratica, formale e banale insieme.

d) Piani di Studio Personalizzati e non personalizzazione dell’azione educativo-didattica

La legge 59/97 e il conseguente DPR 275/99 impongono il superamento del centralismo ministeriale e, inevitabilmente, il venir meno del riferimento principale della scuola centralistica, che è costituito dai programmi nazionali. Al posto dei programmi lo strumento principale di progettualità della scuola diventa il curricolo.

Il DPR 275/99 indica, in maniera chiara, come intendere il rapporto tra centro e scuole nella nuova prospettiva del curricolo (v. Capo III, “Curricolo nell’autonomia”, e in particolare, quanto richiede l’art. 8, “Definizione dei curricoli”).

Non si tratta di un riconoscimento nominalistico, ma sostanziale. Il curricolo è espressione dell’autonomia delle scuole ed è il frutto di una negoziazione sociale, sia all’interno della comunità professionale sia all’esterno, nel dialogo con genitori e comunità sociale. Ogni modalità di personalizzazione deve avvenire all’interno della cornice condivisa del curricolo e del POF, altrimenti si perde l’importante nozione di corresponsabilità, si vanifica la collegialità e si riduce la “personalizzazione” alla stregua di un patto privatistico insegnante-alunno.

Sempre con riferimento al DPR 275/99, la “personalizzazione”, prima di essere riportata alla dimensione della relazione educativo-didattica insegnante-alunno, è riferita al curricolo (comma 4 art. 8), e quindi alla determinazione della scuola del suo peculiare profilo pedagogico, risultante dall’integrazione delle determinazioni nazionali, delle opportunità territoriali, delle richieste sociali, delle scelte dei docenti.

e) Essenzializzare gli obiettivi prescrittivi e definirli meglio

Spetta al ministero definire gli obiettivi specifici di apprendimento, che costituiscono l’elemento di unitarietà all’interno del nuovo contesto dell’autonomia scolastica che, inevitabilmente, comporta una forte spinta alla differenziazione; ma la numerosità degli obiettivi specifici contenuti nelle “Indicazioni” vanifica, nei fatti, ogni spazio di autonomia didattica. Ne abbiamo contato, solo nella scuola primaria, ben 648 (a cui si dovranno aggiungere quelli di religione cattolica). Se poi si considera come in molti casi sono formulati, si vede bene che tanto “specifici” non sono e, quindi, obbligano ad una ulteriore analiticità. Forniamo un solo esempio (ma i casi sono tantissimi): “La civiltà greca dalle origini all’età alessandrina”.

La lista degli obiettivi contiene anche errori macroscopici (es., in storia: la “storia della terra” non è un argomento della storia), indicazioni di obiettivi eccessivamente minuti (es., in inglese: chiedere e dire l’ora); proposte quantomeno discutibili –ricordiamo che si tratta di obiettivi prescrittivi-, es., in educazione alimentare: “praticare diverse forme di cottura dei cibi e correlarle alle esigenze delle diverse diete”… e si potrebbe continuare a piacere.

E’ opportuno rivedere profondamente tutto l’impianto degli obiettivi, armonizzandoli quanto ai criteri di selezione, essenzializzandoli, lasciando agli insegnanti il compito di analizzarli, nella loro traduzione in obiettivi formativi ed, eventualmente, di integrarli.

f) Gli obiettivi specifici non possono rappresentare “livelli”

Nelle “Indicazioni” si afferma che gli obiettivi specifici indicano “i livelli essenziali di prestazione (intesi qui nel senso di standard di prestazione del servizio) che le scuole della Repubblica sono tenute, in generale, ad assicurare ai cittadini…”.

In realtà gli obiettivi, almeno come sono formulati, non indicano nessun livello (manca ogni riferimento quantitativo, che dia una qualche gradazione ai diversi livelli di ciascun obiettivo); sono indicatori di riferimento che, valendo per tutte le scuole, garantiscono l’unitarietà. E quando si parla di “standard”, bisogna rifarsi al DPR 275/97 che parla di “standard di servizio”, ben diversi da “standard di apprendimento”. Definirli compete al centro, che deve indicare gli standard minimi essenziali che ogni istituzione scolastica deve garantire, in termini di servizio (orari, organico, ambienti, attrezzature…), ma poi si tratta di mettere le scuole (tutte) in condizione di rispettarli (e questo comporta un impegno finanziario che va previsto!).

g) Nemmeno gli obiettivi formativi devono prevedere “livelli”

La traduzione degli obiettivi specifici in obiettivi formativi compete ai docenti, ma non può essere indicato il modo di questa traduzione, perché sul tema della definizione degli obiettivi sono legittime molte posizioni, da quella comportamentista o prestazionista a quella fenomenologica o personalista.

h) L’articolazione per “periodi” non va formalizzata, ma suggerita

Così come si prevede di fare, l’articolazione dei “periodi” all’interno del primo ciclo è in contraddizione, ancora una volta, con l’autonomia organizzativa e didattica degli insegnanti. Un’articolazione può al massimo essere suggerita, ma la logica pedagogica dei “tempi distesi” e della flessibilità, condizioni per la “personalizzazione”, non si concilia con la previsione di momenti valutativi terminali dei “periodi”, il cui esito può perfino comportare la bocciatura.

Roma, 12 gennaio 2004

Il Presidente
Prof. Francesco Greco

 

Scuola e crocifissi

11/10/2003

di Alberto Giovanni Biuso e Dario Generali

1. La reazione alla sentenza del giudice dell’Aquila sulla questione all’esposizione del Crocifisso nelle aule di una scuola elementare appare davvero eccessiva, dato che è persino ovvio che non vengano esposti i simboli di alcuna fede religiosa negli edifici pubblici di uno Stato –come quello italiano- che non professi una religione ufficiale.

2. Lo stesso concetto di servizio pubblico presuppone che in esso non vi siano né discriminazioni esplicite che respingano alcuni cittadini in base alle loro convinzioni o alla loro condizione sociale, né situazioni, simboli od ostacoli impliciti che ne rendano difficoltosa o in qualche modo umiliante e sgradevole la fruizione.

3. Da un punto di vista cristiano (cattolico, protestante, ortodosso o altro) ci si dovrebbe piuttosto offendere dell’uso smaccatamente strumentale che esponenti politici di ogni tendenza stanno facendo del caso. Tanto più che fra questi politici ci sono persone corrotte, divorziate, adoranti Mammona e non certo il Dio Crocifisso.

4. Ogni fede, credenza, idea, ogni progetto etico, politico, esistenziale, religioso, compreso -ovviamente- il cristianesimo vanno profondamente rispettati come fatto privato. Ognuna di tali visioni della vita dovrebbe richiedere per sé la stessa libertà che è disposta a concedere alle altre e non pretendere –invece- di imporre erga omnes, sul piano pubblico, i propri simboli.

5. Non si può certo negare che i simboli cristiani abbiano per molti italiani un significato -anche antropologico- particolare ma la questione è che non devono averlo per lo Stato in quanto tale. La società civile non coincide con lo Stato; è una vecchia ma ancora utile lezione hegeliana.

6. Se è indubitabile che la storia e la cultura dell’Occidente si siano intrecciate con la riflessione e la visione del mondo cristiane e, per quel che ci riguarda, cattoliche, è però anche vero che questo è ormai fondamentalmente un dato storico e non appartiene più alla sensibilità di una larga parte della cittadinanza italiana contemporanea. Molte cose sono cambiate negli ultimi decenni, come è apparso evidente negli anni dei referendum sul divorzio e sull’aborto, che hanno fatto emergere l’esistenza di un paese laico e non più confessionale.

7. Notiamo con amarezza ma senza sorpresa che un secolo fa e ancor prima la classe politica italiana, pur governando ancora con lo Statuto albertino e non con la Costituzione repubblicana, oltre ad avere un ben altro livello culturale e morale, aveva anche, e forse per questo, una più chiara consapevolezza della laicità dello Stato. Il «libera Chiesa in libero Stato» di Cavour è ormai lontanissimo dalla teoria e dalla pratica politica. Vanno, invece, proliferando fanatismi di ogni genere e proprio per questo la formula cavouriana si mostra ancora assai attuale, al di là della questione (molto complessa) del Risorgimento. Una conferma sta proprio nella sentenza del giudice aquilano, il quale ricorda che il padre dei due bambini musulmani aveva ottenuto dalle maestre il permesso di appendere un «quadretto riportante un versetto della Sura 112 del Corano», quadretto che il direttore della scuola ha fatto subito rimuovere (pag. 2 della sentenza). E se ciascun credente di una qualsiasi fede formulasse lo stesso tipo di richiesta? Che cosa diventerebbero le scuole italiane? La sentenza, invece, afferma giustamente che «parimenti lesiva della libertà di religione sarebbe l’esposizione nelle aule scolastiche di simboli di altre religioni» (pag. 24) e lo fa dopo una ricostruzione anche storica delle vicende riguardanti la presenza di simboli religiosi nelle aule.

8. Il dibattito politico e giornalistico che è seguito alla notizia della sentenza si è concentrato sull’accettabilità o meno che lo Stato italiano e le sue istituzioni si lascino condizionare dalle esigenze di islamici extracomunitari, presenti nel nostro paese per loro necessità e spesso giunti in modo clandestino ed illegale. In tal senso la questione è stata percepita da buona parte degli strati più semplici della popolazione, che ha ritenuto inaccettabile, al di là delle proprie personali convinzioni, che a “dettar legge” in Italia fossero degli “ospiti”, spesso mal tollerati per i problemi procurati alla nostra società benestante dalla loro miserabile indigenza. Un punto di vista evidentemente del tutto inadeguato ed errato, che sembra non prendere affatto in considerazione la questione invece centrale della necessaria laicità dello Stato, a fronte della altrettanto fondamentale libertà privata di coscienza e di credo religioso di ogni cittadino.

9. La laicità dello Stato rappresenta oggi -in presenza di consistenti e agguerrite minoranze religiose come il nostro paese non ha mai avuto- un baluardo fondamentale degli aspetti migliori faticosamente conquistati dalla nostra civiltà. I valori di tolleranza e di libertà raggiunti dopo l’indicibile vergogna e carneficina delle guerre di religione, devono pertanto essere difesi a ogni costo se non vogliamo tornare, per contenere gli effetti devastanti dell’intolleranza istintiva degli uomini, al cuius regio, eius religio della Pace di Augusta del 1555.

 

Master Universitario di primo livello Esperto di processi di valutazione e di autoanalisi d’Istituto

Comunicato stampa
1 marzo 2003

Nell’Aula Magna della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Firenze, si è svolto -28 febbraio 2003- il primo seminario del Master universitario di primo livello “Esperto di processi di valutazione e di autoanalisi d’Istituto”, diretto dal Prof. Franco Cambi.

Il Master, cui partecipano docenti provenienti da diverse Regioni d’Italia, ha come finalità quella di formare esperti con capacità di interpretazione del funzionamento della scuola e di valutazione dei risultati dell'azione didattico-organizzativa. Esso è volto a far acquisire conoscenze teoriche sull'organizzazione del sistema istruzione e competenze metodologiche e tecniche per la valutazione della qualità dei processi didattico-formativi e gestionali-organizzativi riguardanti le istituzioni scolastiche.

La prima sessione, svolta nella mattinata, ha avuto come tema: La scuola dell’autonomia: problemi di organizzazione e di valutazione. Hanno relazionato il Prof. Franco Cambi, su: Monitorare la qualità del sistema scuola; il Prof. Francesco Greco, su: I diversi approcci all’autovalutazione d’Istituto; il Prof. Carlo Macculi , su: I requisiti degli standard internazionali e delle modalità di certificazione della qualità.

La seconda sessione, svolta nel pomeriggio, ha avuto come tema: Scuola e società complessa. Hanno relazionato il Prof. Paolo Citti, su: L'approccio interdisciplinare per lo sviluppo della qualità nella formazione: modelli e problemi; il Prof. Carlo Catarsi , su: Modelli teorici delle organizzazioni complesse; il Prof. Marco Orsi, su: Scuola, organizzazione e comunità.

Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio Personalizzati

5/8/2003

Parere dell'AND

Premesso che i documenti inviatici rappresentano “dei documenti di lavoro”, utili ai fini della predisposizione dei decreti legislativi, previsti dalla Legge delega, formuliamo preliminarmente le seguenti considerazioni:

A) riteniamo che presupposti ineludibili dei provvedimenti attuativi della Riforma siano:

1) la salvaguardia dell’autonomia delle istituzioni scolastiche, elevata nel nostro ordinamento a rango di norma costituzionale, e la sua espansione nell’autonomia didattico-organizzativa riconosciuta alla comunità professionale, che opera presso le istituzioni scolastiche;

2) la salvaguardia della professionalità docente e dell’effettiva libertà d’insegnamento;

3) una chiara distinzione dei ruoli e delle responsabilità dei diversi soggetti sociali coinvolti nel processo formativo (scuola – famiglia – ente territoriale);

B) consideriamo interessanti e innovative alcune indicazioni contenute nei documenti, tra le altre:

1) la distinzione delle competenze personali in conoscenze e abilità disciplinari e l’ordinamento degli obiettivi specifici in discipline ed educazioni;

2) la istituzionalizzazione dell’autovalutazione d’istituto.

Proposte migliorative

All’interno dell’impianto previsto indichiamo alcuni aspetti, a nostro avviso, migliorabili:

a) Piani di Studio Personalizzati e non personalizzazione dell’azione educativo-didattica.

La legge 59/97 e il conseguente DPR 275/99 impongono il superamento del centralismo ministeriale e, inevitabilmente, il venir meno del riferimento principale della scuola centralistica, che è costituito dai programmi nazionali. Al posto dei programmi lo strumento principale di progettualità della scuola diventa il curricolo.

Il DPR 275/99 indica in maniera chiara come intendere il rapporto tra centro e scuole nella nuova prospettiva del curricolo (v. Capo III, ‘Curricolo nell’autonomia’, e in particolare, quanto richiede l’art.8, ‘Definizione dei curricoli’).

Non si tratta di un riconoscimento nominalistico, ma sostanziale. Il curricolo è espressione dell’autonomia delle scuole ed è il frutto di una negoziazione sociale, sia all’interno della comunità professionale sia all’esterno, nel dialogo con genitori e comunità sociale. Ogni modalità di personalizzazione deve avvenire all’interno della cornice condivisa del curricolo e del POF. Altrimenti si perde l’importante nozione di corresponsabilità, si vanifica la collegialità e si riduce la ‘personalizzazione’ alla stregua di un patto privatistico insegnante-alunno.

Sempre con riferimento al DPR 275/99, la ‘personalizzazione’, prima di essere riportata alla dimensione della relazione educativo-didattica insegnante-alunno, è riferita al curricolo (comma 4 art.8), e quindi alla determinazione della scuola del suo peculiare profilo pedagogico, risultante dall’integrazione delle determinazioni nazionali, delle opportunità territoriali, delle richieste sociali, delle scelte dei docenti.

b) Riconoscere l’autonomia organizzativa degli insegnanti.

Suggeriamo di rivedere in profondità l’impostazione centralistica che caratterizza le ‘Indicazioni’. In particolare ricordiamo che, sempre ai sensi del DPR 275/97, la scuola ha piena autonomia organizzativa, oltre che didattica. Non sembra legittimo imporre soluzioni organizzative di alcun tipo, al massimo, a livello di ‘Raccomandazioni’, si possono offrire criteri e fornire suggerimenti. Questo significa che l’indicazione dell’insegnante tutor e coordinatore non può essere intesa come prescrittiva. Al ministero spetta dare le risorse, e definire tutti gli aspetti, di non poco conto per la verità, di cui parla il citato art.8 e che sono prescrittivi. Tra questi aspetti non figura affatto l’indicazione dei modelli organizzativi.

Questo non significa che la funzione tutoriale non possa essere ‘raccomandata’, ma ci sono diversi modi di interpretarla ed esercitarla. Ricordiamo che la stessa legge 148/90, istitutiva dei moduli, non imponeva il gruppo docente, anzi suggeriva nel primo ciclo l’insegnante prevalente, senza tuttavia imporlo. Si potrebbe scrivere, ad esempio che vanno garantite opportune forme di coordinamento didattico, adottando le soluzioni organizzative ritenute più efficaci, e si potrebbe richiamare l’importanza della funzione tutoriale per un miglior accompagnamento degli alunni, ma poi bisogna fermarsi e rispettare l’autonomia della scuola.

Anche l’idea che la ‘classe’ possa essere smembrata e i gruppi continuamente riarticolati secondo la logica funzionale del raggiungimento di obiettivi ‘personalizzati’ è discutibile, per il pericolo implicito che facilmente si può riconoscere: quello della perdita della dimensione sociale, affettiva, ‘biografica’ del gruppo-classe. Questo non comporta, naturalmente, la non accettazione di forme intelligenti di flessibilità, che del resto sono già state praticate in vario modo (dall’aiuto reciproco, alle diverse forme di cooperative learning), sia all’interno della classe sia in diverse forme di classi aperte, laboratori, ect.

c) Essenzializzare gli obiettivi prescrittivi e definirli meglio.

Spetta al ministero definire gli obiettivi specifici di apprendimento, che costituiscono l’elemento di unitarietà all’interno del nuovo contesto dell’autonomia scolastica che, inevitabilmente, comporta una forte spinta alla differenziazione. Ma la numerosità degli obiettivi specifici contenuti nelle ‘Indicazioni’ vanifica, nei fatti, ogni spazio di autonomia didattica. Ne abbiamo contato, solo nella scuola primaria, ben 648 (a cui si dovranno aggiungere quelli di religione cattolica). Se poi si considera come in molti casi sono formulati, si vede bene che tanto ‘specifici’ non sono e, quindi, obbligano ad una ulteriore analiticità. Forniamo un solo esempio (ma i casi sono tantissimi): “La civiltà greca dalle origini all’età alessandrina”.

La lista degli obiettivi contiene anche errori macroscopici (es., in storia: la ‘storia della terra’ non è un argomento della storia), indicazioni di obiettivi eccessivamente minuti (es., in inglese: chiedere e dire l’ora); proposte quantomeno discutibili –ricordiamo che si tratta di obiettivi prescrittivi-, es., in educazione alimentare: ‘praticare diverse forme di cottura dei cibi e correlarle alle esigenze delle diverse diete’…e si potrebbe continuare a piacere.

E’ opportuno rivedere profondamente tutto l’impianto degli obiettivi, armonizzandoli quanto ai criteri di selezione, essenzializzandoli, lasciando agli insegnanti il compito di analizzarli, nella loro traduzione in obiettivi formativi ed, eventualmente, di integrarli.

d) Rivedere gli obiettivi specifici della scuola dell’infanzia.

Risulta difficile comprendere il perché nelle ‘Indicazioni’ gli obiettivi specifici della scuola dell’infanzia non siano ripartiti seguendo la ripartizione dei campi di esperienza, che restano ancora criteri di riferimento riconosciuti dagli insegnanti e, invece, raggruppati per “titoli” di dubbia fondazione.

e) Gli obiettivi specifici non possono rappresentare ‘livelli’.

Nelle ‘Indicazioni’ si afferma che gli obiettivi specifici indicano “i livelli essenziali di prestazione (intesi qui nel senso di standard di prestazione del servizio) che le scuole della Repubblica sono tenute in generale ad assicurare ai cittadini…”.

In realtà gli obiettivi, almeno come sono formulati, non indicano nessun livello (manca ogni riferimento quantitativo, che dia una qualche gradazione ai diversi livelli di ciascun obiettivo); sono indicatori di riferimento che, valendo per tutte le scuole, garantiscono l’unitarietà. E quando si parla di ‘standard’, bisogna rifarsi al DPR 275/97 che parla di ‘standard di servizio’, ben diversi da ‘standard di apprendimento. Definirli compete al centro, che deve indicare gli standard minimi essenziali che ogni istituzione scolastica deve garantire, in termini di servizio (orari, organico, ambienti, attrezzature…), ma poi si tratta di mettere le scuole (tutte) in condizione di rispettarli (e questo comporta un impegno finanziario che va previsto).

f) Nemmeno gli obiettivi formativi devono prevedere ‘livelli’.

La traduzione degli obiettivi specifici in obiettivi formativi compete ai docenti. Ma non può essere indicato il modo di questa traduzione, perché sul tema della definizione degli obiettivi sono legittime molte posizioni, da quella comportamentista o prestazionista a quella fenomenologica o, personalista.

g) L’articolazione per ‘periodi’ non va formalizzata, ma suggerita.

Così come si prevede di fare, l’articolazione dei ‘periodi’ all’interno del primo ciclo è in contraddizione, ancora una volta, con l’autonomia organizzativa e didattica degli insegnanti. Può al massimo essere suggerita, ma la logica pedagogica dei ‘tempi distesi’ e della flessibilità, condizioni per la ‘personalizzazione’, non si concilia con la previsione di momenti valutativi terminali dei ‘periodi’, il cui esito può perfino comportare la bocciatura.

h) Il portfolio va suggerito, non imposto.

Il portfolio, almeno nella sua origine, si configura come strumento di valutazione ‘autentica’, formativa e non certificativa. Non è però l’unico strumento possibile: l’osservazione partecipe, la rubrica, il diario…sono altre forme possibili di valutazione ‘autentica’. Bisogna evitare che lo strumento prevalga sul significato che lo fonda, ma che fonda anche modalità diverse. E’ opportuno suggerirlo, e sostenere gli insegnanti che ancora non conoscono una simile modalità, ma imporlo appare improprio e rischioso, perché, se non se ne capisce e condivide la natura, è molto probabile il rischio di una traduzione burocratica, formale e banale insieme.

Le ‘Indicazioni’, almeno nella loro attuale formulazione, proprio per l’eccessivo e quasi esclusivo riferimento che fanno a tale strumento, chiedendo un impegno compilativo probabilmente non sostenibile e, forse, nemmeno così indispensabile, rischiano di favorire una sua interpretazione banalizzata.

Conclusioni

Il testo delle ‘Indicazioni’ è prolisso, l’impostazione è eccessivamente didascalica, opinabile in molte affermazioni, prodotte con una eccessiva perentorietà. La pagina introduttiva dedicata alla scuola Primaria è, in tal senso, emblematica. Che cosa vuol dire, tanto per fare un solo esempio, che una caratteristica peculiare della scuola primaria è la sua funzione ‘sociale’? Forse che tale caratteristica viene meno nella scuola ‘Secondaria’? Oppure perché, solo per la primaria, affermare che è ‘etica’? Forse che nella scuola ‘Secondaria’ non vale la necessità di “superare le forme di egocentrismo e praticare, invece, i valori del reciproco rispetto, della partecipazione, della collaborazione e della solidarietà.”?

Anche il paragrafo dedicato agli obiettivi generali del processo formativo andrebbe rivisto. Quanto meno sarebbe opportuno, sul piano linguistico, armonizzarlo con lo stile utilizzato per l’indicazione degli obiettivi generali della scuola dell’infanzia.

In ogni caso, dal momento che le ‘Indicazioni’ hanno una funzione prescrittiva, si suggerisce di tagliare drasticamente tutte le tante parti dedicate a spiegare, motivare, fondare ecc., perché non è compito del centro sposare una pedagogia o una epistemologia o una psicologia, ma di indicare i riferimenti essenziali che, all’interno di un desiderabile pluralismo culturale, le scuole devono necessariamente seguire.

Bisogna evitare di accreditare l’idea che ci si trovi di fronte ad un centro poco rispettoso dell’autonomia delle scuole e della professionalità dei docenti, anacronisticamente direttivo, impropriamente pedagogico, ancora intriso di statalismo. Anche solo la considerazione della quantità delle pagine prodotte comunica immediatamente questa impressione.

Appare chiara la necessità, anche per i limiti evidenziati in queste brevi note, di costituire una commissione pubblica, i cui componenti siano rappresentativi di un ampio pluralismo culturale, capace di lavorare sugli esiti della consultazione e di predisporre un testo maggiormente condiviso. Alla fine sarebbe sempre il ministro a trarre le sue conclusioni, ma l’ascolto e il confronto sarebbero un valido contributo alla costruzione di una scuola tesoro di formazione per le nuove generazioni.

Giornata Mondiale degli insegnanti 5 ottobre 2002

AND - Associazione Nazionale Docenti

LETTERA APERTA ALLE ASSOCIAZIONI PROFESSIONALI DEGLI INSEGNANTI

I processi culturali, tecnologici, economici in atto nel mondo impongono a tutti noi -come singoli e come Associazioni- un ripensamento profondo del fatto educativo e dell’essere scuola. Appaiono ormai evidenti tre grandi fattori che incidono sulla funzione e sul significato dell’insegnare: la perdita di centralità della scuola rispetto ad altre agenzie educative; il progressivo imporsi di una cultura mondiale uniforme; l’incapacità delle organizzazioni sindacali tradizionali di comprendere le trasformazioni e di assumere quindi un ruolo propositivo.

È certo un momento difficile per la scuola ma -non sembri paradossale- è anche un’opportunità decisiva per le Associazioni professionali. Dal saper cogliere il nuovo senza distruggere l’antico dipenderà il nostro futuro e la capacità di incidere sul presente. Il problema scuola, infatti, coincide con la questione docente. Ogni altro aspetto può essere valorizzato o rimanere sterile in base a come la funzione docente si configura nel concreto del quotidiano fare scuola. La questione docente è a sua volta il problema della cultura del docente, della profondità del suo sapere disciplinare, della costanza con cui lo aggiorna, dello studio come elemento centrale della professione. Il docente deve essere -pur nei limiti di ciascuna persona- in qualche modo un maestro e non un semplice facilitatore o trasmettitore di nozioni. La condizione prima per svolgere appieno questo difficile compito è la consapevolezza della centralità del sapere disciplinare rispetto alle metodologie didattiche, del che cosa sul come; dove accade il contrario si crea in realtà un grave vuoto epistemologico. Bisogna affidare la complessità della scuola non alle strutture o agli strumenti ma alle persone vive, libere, dialoganti fra di loro, per fare dell’insegnare e dell’apprendere un’espressione di saggezza educativa.

È sulla base di questa visione generale della scuola che l’Associazione Nazionale Docenti propone al mondo professionale italiano l’istituzione di un coordinamento permanente e paritario, che superi gelosie e steccati, i quali producono come unico effetto il permanere di rappresentanze ormai del tutto burocratizzate e la perenne condizione di inferiorità dei docenti nella scuola. Proponiamo di lavorare insieme per il raggiungimento di alcune finalità generali da noi tutti condivise e di alcuni obiettivi professionali concreti:

Fare del docente il fulcro di ogni riforma e il vero responsabile dell’insegnamento, poiché avranno successo solo quelle innovazioni che viaggeranno sulle gambe di chi nelle scuole opera tutti i giorni.

Liberare l’attività di insegnamento da imposizioni amministrative, gerarchiche e collettivistiche per legarla invece alla comunità scientifica di appartenenza, garanzia di qualità del sapere e di costante rinnovamento didattico.

Costruire un ordine professionale, nel quale i docenti che lo vogliano possano trovare sostegno e che nello stesso tempo garantisca sulla responsabilità dei risultati; un ordine che caratterizzi gli insegnanti in quanto professionisti che lavorano nel settore pubblico senza essere però impiegati della pubblica amministrazione.

Porre al centro della scuola né lo studente né il docente ma quel rapporto educativo dal quale soltanto scaturisce l’apprendimento e, con esso, la crescita delle persone.

I più urgenti obiettivi concreti sui quali impegnarci ci sembrano i seguenti:

- confermare la laurea specialistica per chiunque intenda dedicarsi all’insegnamento;

- ristabilire un legame costitutivo fra la scuola e l’università, nella precisa direzione dell’arricchimento didattico che la scuola può offrire all’università e dell’aggiornamento disciplinare e culturale che quest’ultima può proporre alla scuola;

- migliorare le retribuzioni, che sono del tutto inadeguate ai compiti che ineriscono all’insegnamento;

-distinguere nella gestione della scuola la responsabilità amministrativo-contabile, da lasciare a presidi e direttori, da quella educativa, da affidare a una figura scelta dal Collegio docenti fra i colleghi che rispondano a determinate caratteristiche;

- fornire a ogni docente un proprio «spazio fisico» all’interno dell’edificio scolastico, spazio che consenta di sentire l’istituto come casa propria; i docenti, infatti, sono gli unici a non avere una stanza personalizzabile rispetto non solo ai dirigenti e al personale amministrativo ma anche ai bidelli;

-aumentare le dotazioni strumentali come computer, stampanti, fotocopiatrici,

fornendole ai docenti in numero adeguato alle loro esigenze professionali, sempre più complesse e differenziate;

- istituire un’area di contrattazione autonoma per i docenti: si tratta di una richiesta professionale assai più che sindacale poiché rappresenta la condizione normativa e il presupposto logico per configurare l’attività docente come una professione intellettuale e non come un impiego.

Crediamo che solo le Associazioni -per la loro natura culturale prima che sindacale e politica- possano ormai farsi promotrici credibili e ascoltate di queste esigenze, le esigenze che ogni giorno provengono dai settori più consapevoli, competenti e appassionati della classe docente. Rispondere a tali voci non è solo un diritto delle Associazioni professionali ma anche e soprattutto un loro dovere.

 

Risoluzione "Garagnani" appello al Presidente della Repubblica

Al Presidente della Repubblica
Carlo Azeglio Ciampi

Signor Presidente della Repubblica, ci rivolgiamo a Lei in quanto garante dell’osservanza dei principi costituzionali, esprimendoLe forte preoccupazione per la risoluzione dell’on. Garagnani, che impegna il governo a vigilare sull’oggettività dei libri di testo di storia.

Non siamo i soli a leggervi un attacco alla libertà della cultura e alla libertà di insegnamento e di apprendimento. La risoluzione 7-00163 approvata dalla VII Commissione della Camera l’11 dicembre scorso è contraria all’art. 33 della Costituzione (“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”) e all’ articolo del TU delle norme vigenti in materia di istruzione, che garantisce “ai docenti la libertà di insegnamento, intesa come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente”, al fine di “promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni” (dpr 16.4.1994, n.297).

Il principio costituzionale e la norma che lo interpreta rendono impossibile il ritorno a forme di controllo sui libri di testo e di censure di Stato, che appartengono ad altre epoche della nostra storia. Tocca da un lato al dibattito storiografico, dall’altro alla ricerca didattica e in ultima analisi alla libertà degli autori, degli editori, dei docenti di storia e dei rispettivi collegi assumere responsabilmente decisioni circa la stesura, la stampa e l’adozione dei libri di testo, di storia come di tutte le altre discipline. La scuola ha il compito, e la capacità, di presentare opzioni culturali differenziate e diversi punti di vista, per permettere la crescita di un pensiero autonomo e critico.

Noi ricordiamo quanto da Lei è stato più volte messo in evidenza, e quanto ha ribadito con grande forza all’apertura dell’anno scolastico, sottolineando la funzione pubblica e il ruolo nazionale della scuola, luogo dove si costruisce la cittadinanza italiana, europea e mondiale e si forma nel confronto fra opinioni, storie e culture la coscienza democratica, collettiva e identitaria del Paese.

La ringraziamo per l’attenzione con cui sta seguendo la vita della scuola, convinti che, attraverso la libertà dei docenti e dei dirigenti, si difenda il diritto di tutti i giovani a un’informazione e a una formazione plurale e libera, premessa e garanzia dello sviluppo della democrazia nel nostro Paese.

Roma, 23 dicembre 2002

AIMC associazione italiana maestri cattolici

AND associazione nazionale docenti

ANDIS associazione nazionale dirigenti scolastici

ANP associazione nazionale presidi

CIDI centro di iniziativa democratica degli insegnanti

CIRCOLO “Gianni Bosio”

CLIO ’92

FNISM federazione nazionale italiana scuola media

GISCEL gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica

INSMLI istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia

IRSIFAR istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza

LANDIS laboratorio nazionale per la didattica della storia

LEND lingua e nuova didattica

LEGAMBIENTE scuola e formazione

MCE movimento di cooperazione educativa

UCIIM unione cattolica italiana insegnanti medi

CGIL scuola

CISL scuola

UIL scuola

SNALS

GILDA degli insegnanti

Lettera aperta al Governo, all’ARAN e alle OO.SS.

4/9/2003

di Francesco Greco

Presidente dell'Associazione Nazionale Docenti

 Comunicato stampa

Accade spesso che il moltiplicarsi delle parole nasconda intenti esattamente opposti a quelli che vengono enunciati. Democrazia è uno dei vocaboli più utilizzati nella scuola italiana ma i fatti dicono che è anche uno dei princìpi meno praticati. La Democrazia, infatti, nasce come istituzione assembleare e si sostanzia del diritto da parte dei cittadini di confrontarsi, parlarsi, discutere dei problemi generali o specifici di un gruppo di persone. Pochi lo sanno ma tutto questo non sempre è permesso nella scuola italiana. E non lo è anche per l’esplicito divieto posto dai sindacati firmatari del contratto, che, appoggiandosi a un discutibilissimo criterio di “maggiore rappresentatività” hanno stabilito l’interdetto agli altri sindacati di indire assemblee nelle scuole in orario di servizio se non sotto la loro egida. In concreto, questo significa la messa sotto tutela della libertà sindacale e con essa della libera espressione del pensiero degli insegnanti.

Eloquente e significativa di tale situazione -fra i tanti documenti- la Nota Aran del 22 maggio 2001 - Prot. 7732 - oggetto: note di chiarimento in materia di relazioni sindacali, la quale, facendo riferimento al CCNL del 15 marzo 2001 firmato da Cgil-Cisl-Uil e Snals, afferma che «l’assemblea sindacale può essere indetta esclusivamente dai soggetti indicati nell’art. 13 del CCNL del 15 marzo 2001» e ribadisce la proibizione a tenere Assemblee nelle scuole per gli insegnanti che ne abbiano l’esigenza -anche se fossero la maggioranza o la totalità del corpo docente- e per tutte le organizzazioni cosiddette «non rappresentative, ancorché presenti nell’ente ed ancorché presentatrici delle liste i cui candidati sono stati eletti nelle RSU».

L’A.N.D. ritiene che norme e accordi siffatti siano indegni di un Paese che si dice democratico e avanzato; esse rappresentano, invece, un’inammissibile ipoteca burocratica posta sui docenti delle scuole italiane. Già nel 1783 Immanuel Kant denunciava la pretesa delle grandi organizzazioni burocratiche di imporre la propria volontà a degli esseri umani ritenuti costantemente «minorenni» e affermava che «il pubblico uso della propria ragione dev’essere libero in ogni tempo». È incredibile e non più tollerabile che -dopo più di due secoli- in Italia ci sia ancora chi voglia mantenere sotto controllo il diritto pubblico di parola e di discussione collegiale degli educatori.

Chiediamo pertanto al Governo, all’Aran e a chiunque sia responsabile dell’attuale situazione di attivarsi affinché il diritto di assemblea sia restituito a tutti i soggetti collettivi che operano nella scuola; che ai docenti sia riconosciuta, nel limite del monte ore stabilito dai contratti, la possibilità di partecipare alle assemblee indipendentemente dal soggetto sindacale che le ha organizzate.

(26 novembre 2002)

Stato giuridico dei docenti e riformauniversitaria: due segnali importanti

di Francesco Greco
Presidente dell’Associazione Nazionale Docenti

COMUNICATO STAMPA

22 gennaio 2003

Presto il Parlamento potrebbe essere chiamato ad esprimersi e a decidere su due questioni molto importanti che riguardano lo stato giuridico dei docenti e la riforma degli studi universitari.

Sulla prima questione -l’ipotesi di presentare un emendamento alla legge di riforma che deleghi il Governo a definire un nuovo stato giuridico dei docenti- riteniamo che la delega non possa prescindere dall’indicare che siano garantiti i seguenti criteri direttivi:

·il pieno rispetto della libertà di insegnamento;

·la definizione di criteri che caratterizzino e garantiscano una nuova dimensione professionale dei docenti;

·la individuazione di ipotesi di sviluppo professionale legato a nuove funzioni e a riconoscimenti della qualità dell’insegnamento.

Sull’altra questione della scansione degli studi universitari, l’AND è convinta che la formula del 3+2 sia stata un’autentica sciagura, una passiva imitazione di modelli che nulla hanno a che fare con la storia e la qualità dell’Università italiana. Guardiamo quindi in modo positivo alla prospettiva del ritorno a una laurea «vera», ottenuta a conclusione di un corso di studi rigoroso e razionale. Il primo anno potrebbe servire da raccordo con il ciclo scolastico secondario, per poi -negli anni successivi- restituire agli studi universitari la loro dimensione propria, che non è quella di un super-Liceo ma di un’Istituzione che garantisca agli studenti l’acquisizione di conoscenze e di metodologie al più alto livello possibile.

Negli ultimi decenni fra Scuola e Università si è creato un circolo vizioso al ribasso; convinti come siamo che la professionalità docente abbia tutto da guadagnare dalla serietà degli studi -a ogni livello- guardiamo con interesse a una possibile inversione di tendenza.

Il Governo risparmia sul futuro dell’Italia

4/9/2003

di Francesco Greco
Presidente dell'Associazione Nazionale Docenti

Comunicato Stampa

La matematica parla chiaro, i numeri non barano. E sono proprio le cifre a dirci che in un momento non facile per tutto il Paese, il Ministero dell’Economia e quello dell’Istruzione tagliano drasticamente le risorse per la scuola pubblica ma le trovano per le private.

Da una parte, attraverso la formula dei crediti d’imposta, vengono erogati finanziamenti per 90 milioni di Euro a chi iscrive i propri figli agli Istituti privati; dall’altra parte il Decreto 29 novembre 2002, attuativo del decreto legge 194/2002, stabilisce tagli alla scuola pubblica che riguardano 805,4 milioni di Euro di impegni e 1.034,5 milioni di Euro di pagamenti. E si tratta di tagli immediatamente operativi, poiché si riferiscono a somme già assegnate ma non ancora trasferite nelle scuole.

La Legge Finanziaria e i decreti a essa correlati stanno delineando di fatto la progressiva dismissione da parte dello Stato dei suoi impegni verso l’istruzione, la ricerca, le Università. Prima ancora che come Associazione professionale dei Docenti, è come cittadini che guardiamo con estrema preoccupazione a una politica di tagli che non solo penalizza la Scuola ma che colpisce il futuro stesso del Paese. Ci chiediamo quando l’Italia avrà un Governo e una classe dirigente in grado di capire una verità tanto ovvia quanto decisiva: ogni euro risparmiato sulla scuola oggi, sarà pagato domani –e con forti interessi- in termini di importazione di tecnologie, spese per il recupero sociale, generale depressione economica, dissolvimento dell’identità culturale del Paese.

10 dicembre 2002

 

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